La joint venture: uno strumento ancora attuale per l’accesso ai mercati internazionali
I contratti di joint venture continuano a essere uno dei migliori strumenti a disposizione delle imprese di ogni settore per crescere in mercati già consolidati o entrare con successo in nuovi mercati, condividendo rischi, investimenti e capacità organizzative. Soprattutto l’ingresso in mercati esteri “ostici”, per la loro elevata competitività o per la presenza di regole d’accesso protettive delle imprese locali, vede l’accordo di joint venture come soluzione indispensabile (è questo il caso dei paesi del Sud Est asiatico come l’Indonesia, il Vietnam e la Cina prima dell’adozione delle recenti politiche di apertura sugli investimenti esteri, con l’entrata in vigore nel Gennaio 2020, della nuova Foreign Investment Law e della Foreign Investment Law Implementing Regulation).
Un esempio piuttosto recente e, pensiamo, scarsamente conosciuto (al di fuori di un numero ristretto di addetti ai lavori)di partnership internazionale che ha garantito l’affermazione delle capacità tecnologiche di un’azienda italiana su uno dei mercati, al contempo, più chiusi e più competitivi del mondo, è quello che ha consentito a Iveco Defence Vehicles (IDV) di aggiudicarsi la gara per la fornitura del nuovo mezzo anfibio del Marine Corps statunitense, grazie all’accordo con la britannica BAE Systems. Per fare una metafora efficace sul tipo di “successo a casa degli specialisti”, è stato come vincere la fornitura delle mazze per la Major League di Baseball. Senza addentrarsi in tecnicismi, IDV aveva progettato da molti anni il miglior veicolo militare anfibio disponibile sul mercato, ma ha potuto superare le barriere, anche di ordine politico (“buy American” o almeno “buy Anglosaxon”), tipiche del procurement della difesa USA solo costituendo la joint venture con BAE Systems. Può sembrare paradossale, e non lo è, ma il successo all’estero ha garantito a IDV anche una commessa nazionale.
Questo caso dovrebbe bastare a fugare i dubbi sulla perdurante efficacia degli accordi di joint venture internazionale. In linea generale, questi patti vengono strutturati secondo due modelli:
– la Joint venture societaria, nella quale i partecipanti costituiscono una società di capitali per gestire l’attività in comune, e che è utilizzata per collaborazioni di medio o lungo periodo. Un esempio è dato da BMW Brilliance Automobile Ltd, società automobilistica con sede a Shenyang, in Cina, nata dall’accordo tra la tedesca BMW e la cinese Brilliance la produzione e la distribuzione delle automobili BMW in Cina;
– la Joint venture contrattuale, tramite la quale i partecipanti concludono un contratto di collaborazione che ha ad oggetto uno o più progetti determinati, alla cui realizzazione concorrono più soggetti specializzati in diversi settori tra loro complementari (non viene quindi creata una nuova società). Un caso storico, ma ancora emblematico di joint venture contrattuale, per restare in tema automotive, riguarda la produzione dell’Opel Corsa Diesel, propulsa dal motore 1.3 Multijet di Fiat.
I vantaggi di una cooperazione di questo tipo, come abbiamo già accennato, sono molteplici: il rafforzamento della posizione rispetto alla concorrenza; la diminuzione, o meglio la suddivisione dei rischi; la condivisione degli sforzi e dei costi di ricerca e sviluppo; l’ottimizzazione dei processi produttivi; i benefici derivanti dall’evitare normative che impongono tassazioni elevate agli investimenti stranieri.
Perché la joint venture sia autentica ed effettiva, però, è necessario approfondirne i rischi potenziali e assumere le necessarie contromisure in sede di definizione contrattuale delle posizioni dei partecipanti. I profili più delicati riguardano la trasmissione di segreti aziendali a un partner che è al contempo anche un concorrente. Nel caso di joint venture verticali – nella quali le aziende partecipanti non hanno le medesime competenze o una struttura produttiva equivalente – il soggetto in possesso del kow how dovrà ottenere lo status di design authority e di titolare della proprietà intellettuale, riservando al partner fasi meno delicate della produzione o la gestione degli aspetti commerciali.
Inoltre, maggiore è il numero dei partner, più complesso risulterà il processo di gestione e amministrazione dei progetti comuni. Non da ultimo, le differenze culturali possono portare a complicazioni e incomprensioni, minacciando instabilità e insuccesso.
La pratica dimostra che un’alleanza di successo è frutto di un’attenta regolamentazione. Conoscere le parti in gioco, condurre un approfondita due diligence, prevedere dichiarazioni di principio, che regolino il modus operandi dei partner all’interno come all’esterno dell’alleanza, regolare le questioni connesse alla proprietà industriale, la risoluzione delle controversie e la regolamentazione in materia di exit strategy, sono soltanto alcuni dei pilastri alla base di una solida cooperazione.
Avv.ti Alessandro Facchino ed Enzo Cardone