Greenhushing: quando il silenzio è “verde”
Nell’epoca della sostenibilità esistono due “patologie” delle strategie di comunicazione aziendale: il Greenwashing, che indica il fenomeno della “ripulitura” di brand aziendali e il Greenhushing, ovvero la propensione di alcune aziende a pubblicizzare in modo limitato o addirittura a non comunicare affatto il proprio impegno e i propri risultati in ambito ambientale.
Il greenwashing e il greenhushing possono essere definiti come due “patologie” nelle strategie di comunicazione aziendale.
Il termine Greenwashing è un gioco di parole che nasce dalla fusione di “green” (“verde”, nel senso di ecologico) e “whitewashing” (“dare una mano di bianco”, metaforicamente inteso come “nascondere”, “ripulire”) e indica un fenomeno, non sempre lecito, in cui le imprese “ripuliscono” il loro brand attraverso un’azione di propaganda, ovvero attraverso specifiche strategie di marketing, finalizzate a proclamare l’azienda e il brand attenta alle tematiche ambientali e di sostenibilità con un atteggiamento poco trasparente.
Il Greenhushing (“silenzio verde”) è, invece, la propensione di alcune aziende a pubblicizzare in modo limitato, o addirittura non comunicare affatto, il proprio impegno e i propri risultati in tema di sostenibilità.
Spesso tale ultimo fenomeno, si verifica in piccole realtà imprenditoriali, non particolarmente strutturate che mantengono un basso profilo, senza esaltare la loro conversione verso l’adozione di buone pratiche green, spesso per timore di incorrere nel tanto temuto fenomeno del “greenwashing”.
Entrambi i fenomeni, anche se diversi tra loro, possono incidere negativamente sulla reputazione aziendale: tuttavia mentre il greenhashing è considerato un comportamento omissivo, talvolta dettato dal timore di incorrere nel greenwashing e in quanto tale privo di conseguenze giuridiche; quest’ultimo rientra, invece, nel quadro normativo della concorrenza sleale disciplinato dall’art. 2598 cod. civ., è passibile di un’azione inibitoria di cui all’art. 2599 cod. civ. e l’autore della concorrenza sleale può essere tenuto al risarcimento dei danni così come previsto dall’art. 2600 cod. civ. (inclusa la pena accessoria della pubblicazione dell’ordinanza di condanna).
Recentemente, si è aperto un dibattito sull’eventuale rilevanza penale del greenwashing che, in assenza di una disciplina ad hoc che preveda un autonoma fattispecie di reato, potrebbe essere inquadrato nel “reato di frode in commercio ” di cui all’art. 515 cod. pen. che rientra tra i c.d. reati presupposto previsti dal d.lgs. 231/2001 , idonei a configurare la responsabilità amministrativa dell’ente in conseguenza di un reato oppure nella fattispecie di cui all’art. 640 cod. pen., perché proclamare la propria azienda o il proprio brand attento alle tematiche ambientali e di sostenibilità senza esserlo, potrebbe essere considerato un raggiro o artificio che induce in errore il consumatore o gli investitori.
La tutela del consumatore di fronte a comunicazioni commerciali ingannevoli che pubblicizzano benefici per l’ambiente e sensibilità ecologiche è di primaria importanza. Le conseguenze di tali pratiche non rappresentano solo un rischio per il capitale reputazionale delle aziende che se ne avvalgono ma sono idonee ad impattare anche sulla libera scelta dei consumatori.
Ecco che sgombrare il campo dalle “eco-truffe”diventa una questione di “ecologia di mercato”.
Avv.ti Alessandro Facchino ed Enzo Cardone