
In Italia il contratto non si “rescinde”
Spesso si sentono illustri divulgatori televisivi affermare che un calciatore, una società o addirittura enti pubblici hanno “rescisso” un contratto. Si tratta di un errore o meglio di una grave imprecisione giuridica, motivata, forse, dalla forza evocativa, quasi onomatopeica, della parola “rescissione” o dell’aggettivo “rescisso”, colpo di forbice. In realtà, nel nostro ordinamento civilistico, l’istituto della rescissione – disciplinato dagli articoli 1447-1452 del Codice Civile – è soltanto l’ultima e quasi certamente una delle più rare ipotesi di scioglimento di un contratto.
Già perché la rescissione è una figura residuale, applicabile solamente in caso di vizio iniziale del rapporto contrattuale. Sono soltanto due le ipotesi tipiche previste nel nostro codice in cui può essere invocata la rescissione:
1 – Lo stato di pericolo:
che si verifica quando una delle parti è indotta a concludere il contratto per sottrarre sé stesso o altre persone da una situazione di pericolo attuale di danno grave;
2 – Lo stato di bisogno:
che si ha nei casi in cui il contrato è sottoscritto per far fronte, appunto, a uno stato di bisogno, che risulta essere l’elemento determinante per la conclusione dell’accordo.
In entrambi i casi, comunque, si ha una situazione di debolezza di uno dei due contraenti, della quale l’altra parte approfitta.
Invece, sono più frequenti casi di scioglimento del vincolo contrattuale mediante l’esercizio della facoltà di recesso, che può essere prevista a favore di una o di entrambe le parti e che consente di interromperne efficacia ed effetti, oppure mediante la risoluzione conseguente all’inadempimento – cioè al mancato rispetto – di una o più delle obbligazioni contrattuali.
Avv. Nicolò Calcagno